Maschere
e soltanto maschere sembrano affascinare i miei conterranei più di
qualsiasi altra cosa. Realizzai le mie prime reinterpretazioni di
maschere apotropaiche tanti anni fa, spinto da un semplice desiderio
di trovare l’autenticità e le radici di quel che credevo il mio lavoro.
Oggi penso che siano loro
stesse a ritornare nei miei lavori, di tanto in tanto, si manifestano
improvvisamente!
Io penso che queste maschere apotropaiche siano
veramente il simbolo più forte dello stereotipo di questa terra.
Allora essere ossessionato dal plasmarle mi rende un auto-stereotipo
di “calabresità”? Definizione abusata e pericolosa che media e
intellettuali utilizzano ad-hoc per distinguerci ancora una volta nel
nuovo millennio.
Quasi tutto quello che si legge qui della Calabria, a parte la letteratura dialettale, è rivolto in genere a magnificare una Calabria che non esiste più, e cioè le colonie greche, e Sibari, e Locri. La tendenza è al classico. Il povero bracciante fugge nell’emigrazione, e l’intellettuale fugge nel passato. La retorica si, quella è nazionale. […] La dignità è al sommo di tutti i pensieri, ed è il lato positivo dei calabresi, come è la difficoltà contro cui si può urtare inconsapevolmente, poiché è qualche volta tutto quanto ha l’uomo”. (Corrado Alvaro, Un treno nel Sud, 1958).
L'opera è stata realizzata in Gres ad alta temperatura, 1260°C, in fornace a legna; cristallina base cenere e colorazione in ossido di ferro puro; composta da: tre dischi diametro 15 cm, altezza 3cm.
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